Office Design e spazio personale
La postazione di lavoro e l’arredamento giocano un ruolo molto importante in quanto sono legati alla privacy ed alla possibilità di comunicare con i colleghi. Come sostiene Baroni (2012) :«dalla disposizione dei posti a sedere un nuovo arrivato può capire di che tipo di riunione si tratterà; dalla disposizione e dall’ingombro dell’arredamento capirà se può sedersi e rilassarsi o se deve parlare in piedi con la porta aperta; il fatto che i posti a sedere siano fissi o mobili può favorire o scoraggiare le interazioni, ma anche dare informazioni sulla flessibilità delle funzioni di quell’ufficio e dei suoi occupanti» (p.136). In molti posti inoltre, avere un ufficio individuale, come pure il lusso e la qualità dei materiali di cui sono fatti i mobili, sono indicatori di status symbol (Baroni, 2012). Come ribadito anche da Noorian (2009), gli uffici, che sono ormai da diversi anni i luoghi di lavoro prevalenti, hanno il potere di influenzare il benessere individuale dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. In questo gioca un ruolo fondamentale il grado con cui il design dell’ufficio riesce ad integrare i bisogni funzionali con quelli dell’individuo. A seguire proponiamo quindi un breve excursus sui cambiamenti avvenuti nel corso del tempo rispetto all’office design.
Dagli inizi del ‘900 ad oggi il design degli uffici ha subito molte trasformazioni in risposta ai cambiamenti economici e sociali. Fino all’800 infatti non vi era una chiara distinzione tra lo spazio di lavoro e quello residenziale, molto spesso capitava che piccole stanze della casa venissero adibite a spazi di lavoro (“honeycomb”). Solo con lo sviluppo economico e commerciale del XX secolo si è fatto strada l’ufficio vero e proprio “closed plan office”, inteso all’epoca come una o più stanze, chiuse sulle quattro pareti, ospitanti una o più persone al loro interno (Noorian, 2009). È con l’entrata in scena di Frederik Winslow Taylor che la tendenza inizia a cambiare, egli sviluppò infatti il concetto di “scientific management”, traducibile nei termini di una strategia di “assemblaggio” dei lavoratori all’interno di ampie stanze, solitamente piuttosto affollate. Nella visione taylorista lo spazio di lavoro ottimale per la massimizzazione dell’efficienza e della produttività consisteva infatti un ampio spazio aperto (“open space office”) in cui posizionare quante più persone possibile, rimuovendo muri e spazi divisori così da velocizzare la trasmissione di documenti e compiti.
In queste condizioni, l’ambiente lavorativo degli uffici era molto simile alla catena di montaggio delle fabbriche (Noorian, 2009). Le cose iniziano a cambiare intorno agli anni ’60, quando si diffonde l’idea che si debba porre maggiore attenzione al comfort ed alla felicità dei lavoratori, traducibile in una maggiore flessibilità dell’arredamento, con possibilità di spostare le scrivanie per facilitare la comunicazione ed utilizzare piante ed altri oggetti per ricavarsi uno spazio più personale. In linea con questa visione si diffonde l’“Active Office System”, un sistema che cerca di andare incontro alle necessità specifiche dei lavoratori in relazione ai vari compiti da svolgere, con lo scopo di conferire loro maggiore controllo sullo spazio di lavoro. Si diffonde così l’uso di pannelli mobili che però, ben presto, assumono la forma di cubicoli squadrati piuttosto rigidi, come conseguenza di un rinnovato focus sull’efficienza economica (intorno agli anni ’70).
Negli anni ’80 la mentalità cambia di nuovo e le nuove generazioni si mostrano sempre più attente al bilanciamento vita-lavoro. Negli anni successivi, con il rapido diffondersi delle nuove tecnologie – personal pc, smartphone – l’approccio allo spazio di lavoro si caratterizza per una sempre maggiore ricerca di flessibilità, che si realizza grazie alla possibilità di lavorare in remoto, ad esempio mentre si sta comodamente seduti in un bar o in casa propria. Le nuove generazioni scardinano la struttura dell’ufficio gerarchicamente suddiviso a favore di una maggiore interconnessione tra i vari livelli della gerarchia organizzativa. La tendenza più recente si muove quindi verso spazi di lavoro sempre più accoglienti, colorati e stimolanti (Milne e Perkins, 2017).
Ultimamente si è diffuso un utilizzo delle postazioni di lavoro particolarmente aperto e flessibile, funzionale al tipo di compito che di giorno in giorno deve essere svolto (Activity Based Workplaces – ABW), a discapito delle tradizionali postazioni fisse di lavoro. Esempi di queste nuove strategie – che riducono i costi operativi e la fatica di riorganizzare lo spazio in seguito al turnover dei lavoratori – sono: l’hot-desking che riserva un certo numero di scrivanie e tecnologie (non assegnate) ai lavoratori che devono muoversi tra più uffici; l’hoteling che prevede invece la possibilità di prenotare in anticipo una certa postazione in base alle esigenze che via via si presentano; il free address, adatto a quei lavoratori che non hanno proprio la necessità di essere fisicamente presenti nel luogo di lavoro. Tra le critiche che vengono mosse agli ABWs vi è il fatto di adattarsi bene alle persone più estroverse e propense alla socializzazione mentre sarebbero meno adatte alle persone più introverse. Altra critica è relativa all’impossibilità di personalizzare il proprio spazio di lavoro, aspetto non trascurabile visto che risulterebbe associato ad una perdita del senso di identità (Milne e Perkins, 2017).
Nonostante le trasformazioni intercorse, gli uffici open-space continuano ad essere ancora piuttosto diffusi, sono infatti innegabili alcuni dei vantaggi ad essi associati, quali costi contenuti e la possibilità di contenere un numero elevato di lavoratori in uno spazio relativamente ridotto, in più sono emersi degli effetti significativi nell’aumento della comunicazione e della socievolezza di gruppo (Kamarulzaman et al., 2011). Anche Oldham e Brass (1979) hanno rilevato maggiori opportunità di fare amicizia con i colleghi e di interagire con i superiori negli uffici open-space rispetto agli uffici convenzionali. Dall’altro lato sono però rilevanti le lamentele dei lavoratori relative alla rumorosità ed alla mancanza di privacy (Noorian, 2009). Secondo Altman (1975) la privacy può essere definita come una forma di controllo selettivo dell’accesso alla propria persona o al proprio gruppo, ciò significa avere la possibilità di gestire gli stimoli circostanti, le informazioni rispetto al sè e le interazioni sociali. Perciò una privacy ottimale non corrisponde a totale solitudine ma piuttosto alla possibilità di scegliere se isolarsi oppure stare in compagnia (Noorian, 2009). Vi sono due tipi di privacy che vengono minacciati negli open-office, quella acustica e quella visiva: la privacy acustica è limitata in quanto la comunicazione confidenziale risulta più complicata in questi ambienti, quella visiva è invece relativa al fatto che gli individui possono vedere ed essere visti tutto il tempo dalle persone che li circondano, il che può provocare un senso di disagio (Samani, 2015). Quello che emerge dalle ricerche rivela infatti che le persone che percepiscono l’elevato numero di interazioni come invadenti il proprio spazio personale sperimentano un senso di affollamento e perdita di privacy, che può sfociare poi in percezioni di insoddisfazione.
Diversi studi hanno così dimostrato che gli uffici open-space sono associati ad una riduzione della soddisfazione lavorativa, della motivazione e della percezione di privacy. In particolare sembra che siano le “chiacchiere insignificanti” a causare maggiore stress e distrazione. A questi aspetti si aggiunge anche un aumento dei problemi di salute, soprattutto mal di testa e infezioni respiratorie (Kamarulzaman et al., 2011; Oldham e Rotchford, 1983; Sundstrom, Burt e Kamp, 1980).
Nella progettazione dello spazio di lavoro è perciò importante permettere a ciascun individuo di avere controllo sullo scambio di interazioni, in modo da permettergli di raggiungere il livello di privacy necessario a generare una sensazione di controllo sullo spazio individuale, avere la propria privacy aiuta infatti anche a definire l’identità personale a livello spaziale. L’ambiente di lavoro, in sintesi, dovrebbe permettere agli individui di passare facilmente dalla solitudine alla condivisione sociale (Noorian, 2009).
Un altro aspetto che potrebbe infastidire i lavoratori viene suggerito da Cohen e Cohen (1983), i quali evidenziano la necessità delle persone di sentirsi protette avendo le spalle coperte da muri, pannelli o altri elementi, perciò uno dei problemi associati agli uffici open-space potrebbe essere anche il fatto che non permettono ai lavoratori di ricavarsi uno spazio che susciti un senso di protezione.
Dai risultati delle ricerche citate possiamo dunque dedurre che il rispetto dello spazio personale sia un fattore significativo per il benessere dell’individuo.
Ma cosa si intende esattamente per “spazio personale”?
Una metafora molto comune lo paragona ad una grande bolla di sapone che delinea un confine sottilissimo ed invisibile attorno a ciascun individuo, non è necessariamente di forma sferica, non è neppure detto che si estenda ugualmente in tutte le direzioni, esso oltretutto può variare nelle dimensioni in base alla situazione ed alle persone coinvolte (Baroni, 2012; Noorian, 2009). Una variabile in grado di influenzare la dimensione dello spazio personale risulta essere lo status individuale, sembra infatti che lo spazio personale aumenti al crescere dell’età, del senso di sicurezza e di indipendenza, ma anche della sensazione di vulnerabilità e di paura (Noorian, 2009). Secondo McAndrew (1993) e Baroni (2012) assolverebbe a due funzioni fondamentali:
1. l’autoprotezione e
2. la comunicazione e regolazione dell’intimità.
L’autoprotezione riguarda possibili minacce fisiche o psicologiche provenienti dall’ambiente: quando la distanza interpersonale si riduce eccessivamente insorgono infatti sensazioni di ansia e disagio. Così accade che lo spazio vuoto che mettiamo intorno a noi aumenta dopo aver subito una valutazione negativa o un comportamento aggressivo. Un esempio molto comune di comportamento finalizzato ad evitare la vicinanza di altre persone è quello di evitare di sedersi su una panchina solo perchè vi è seduto qualcun altro sul lato opposto.
Secondo la distinzione classica di Hall (1966) vi sono quattro tipi principali di distanza tra le persone: la distanza intima (tra i 15 e i 45 cm), quella usata nei rapporti più stretti; la distanza personale (tra i 45 e i 120 cm), tipica delle normali conversazioni; la distanza sociale (tra i 120 e i 360 cm), visibile nelle interazioni più formali, come nei luoghi di lavoro; e la distanza pubblica (tra i 3 e i 6 m), che si realizza per lo più tra sconosciuti quando non c’è interesse ad interagire. Tutte queste misure hanno comunque lo scopo finale di, da un lato, difendere lo spazio dell’individuo, dall’altro, fermarlo prima che invada lo spazio di un altro (Baroni, 2012). Quello che emerge dall’analisi di Hall è che innanzitutto le distanze non sono universali, nel senso che varia molto in base alla cultura quale comportamento è considerato accettabile al variare della distanza, ed inoltre quello che conta non è tanto la distanza dal punto di vista fisico quanto la possibilità di comunicazione interpersonale che offre. Dunque la vicinanza può essere pensata come un meccanismo di comunicazione nello spazio (Noorian, 2009).
© La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli